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capitolo ix. 121

ladri che trattavan fra loro di dividere il denaro ed i prigioni: gli udì parlar di taglia, e speculare qual de’ due paresse poterne pagare una maggiore. Fra varie voci che parlavano diversi dialetti, tutti però italiani, ne avvertì una che aveva pronunzia forestiera e piuttosto tedesca; ma nel meglio delle sue osservazioni si sentì prendere da molte braccia, e caricar sulle spalle di due uomini che s’allontanarono dalla comitiva, senza che potesse indovinare che direzione prendevano.

Il viaggio durò più d’un’ora, frammezzato da pause, durante le quali il portato era, non molto gentilmente, deposto in terra, ed i portatori si riposavano. A D. Michele intanto, fra il terrore, naturale anche ad un uomo valoroso, di morire scannato come un cane da que’ ribaldi; i legami che lo stringevano, e l’angoscia di star sulle spalle altrui posato sugli acuti canti d’un’armatura, cominciava ad increscer fieramente questo giuoco.

Alla fine pur si fermarono. S’udì lo strepito d’una grossa porta che s’apriva. Entrarono, la porta chiudendosi di nuovo risuonò alle spalle. Qui D. Michele fu sciolto, e, condotto pochi passi più avanti, ebbe sbendati gli occhi e si trovò in una camera ove per uno spiraglio entrava un po’ di chiarore di luna. In una parete era una porta bassa e nana, tutta ferrata di chiavistelli; fu aperta, ed una voce disse a D. Michele: «Va dentro». S’abbassò egli per entrare, e mentre con un piede innanzi tentava se vi fossero scalini, una spinta nelle reni data col calcio d’una picca lo fe’ giungere più presto che non avrebbe voluto al fondo di una scaletta, ed in modo che gli sarebbe stato impossibile di trovar il conto degli scalini discesi. Un chiavistello che andò al suo luogo cigolando, avvertì D. Michele che per la porta non v’era speranza d’uscire.