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capitolo ix. 117

da metter timore, almeno di disporre l’animo di chicchessia ad immagini funebri; ed il povero D. Litterio che, quando il sole era alto sull’orizzonte, avea pensato a quel momento senza turbarsi, trovandosi ora all’atto conosceva quanta differenza vi sia tra il dire e il fare.

Stava guardando quell’ossa che aveva sotto i piedi, quelle mura verdi per l’umido, ed in varii luoghi ancora coperte d’antiche pitture, e ritto nel mezzo, con una mano nell’altra, aspettava il fine di questa diavoleria.

D. Michele depose in terra un fardelletto che aveva portato. Ne trasse il libro degli scongiuri, si pose una stola nera impressa di segni cabalistici, e cominciò colla verga a disegnare un circolo con mille cerimonie: vi fece la porta, e disse al podestà che entrasse per quella col piede manco innanzi, e, datogli in mano il pentaculo, cominciò a mormorare parole latine, greche, ebraiche, ora chiamando a nome centinaja di demonii in virtù di Dio eterno, ora alzando, ora abbassando la voce, e facendo pause, durante le quali il rimbombo si prolungava sotto quella vôlta, qualche pipistrello passava sventolando presso il viso del podestà che rannicchiato e tremante pareva il freddo istesso: temeva ogni momento veder uscir da quelle sepolture gli originali degli scheletri dipinti sulla facciata, e badava a pregar Dio, e supplicarlo che per sua misericordia volesse render vani gli scongiuri del suo terribile compagno.

Mentre in ginocchio si raccomandava a questo modo sentì battersi in su la spalla, alzò gli occhi, e vide l’angolo sotto il campanile pieno d’una luce livida, ed una forma umana coperta del lungo lenzuolo, che suol involgere i cadaveri, sorgere lenta lenta da una buca.

Lo spettro rimase immobile, e non diremo come rimanesse il podestà. D. Michele gli si chinò all’orecchio, e gli disse: