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tratto, si sbigottì del pericolo, s’alzò da tavola, e preso un lume con istizza, se n’andò a letto.

Quella notte gli parve un secolo. Alla fine venne il giorno, si vestì in fretta, e sceso in piazza si piantò da un barbiere ove D. Michele gli aveva promesso di venirlo a trovare. Sedè sulla panca della bottega ove capitavano ogni mattina il notaio, il medico, lo speziale e due o tre altri che eran le teste quadre di Barletta. Posta una gamba sull’altra, dimenava così un poco il piede che restava in aria; il braccio sinistro stava rasente il busto, e la sua mano al fianco opposto riceveva nel concavo della palma il gomito destro; colle dita si sonava il tamburo sul mento guardando ora di qua ora di là se comparisse l’amico; poi in aria perchè non compariva. Lo speziale, il notaio e gli altri gli avean detto più volte: Ben levato, signor podestà; ma vedendo che faceano poco frutto e che appena rispondeva, si tenean in rispetto parlando fra loro sotto voce e dicendo: Che diamine vi sarà di nuovo questa mattina!. D. Litterio li lasciava dire, e taceva, poichè aveva due visi al suo comando; uno umilmente giulivo per coloro che eran di più di lui; l’altro arricciato e pieno d’angoli per quelli che eran da meno; e questo, come ognuno sa, è il bel dono concesso dal cielo a tutti gli sciocconi.

Passata così una mezz’ora udì una voce alle spalle che diceva:

— Eccellenza!... Signor podestà, non per offendervi.... se volete restar servito.... son colte sulla rugiada.

Si volse e vide l’ortolano di S. Orsola, Gennaro Rafamillo, che gli offeriva una decima su un canestro di ciliege, che veniva ogni mattina a vender in piazza con altre frutta; e sapeva per esperienza, che mediante questo tributo poteva poi vendere a voglia sua senza impacciarsi della bandiera del mercato.