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capitolo viii. 105

braccio sinistro, e nella mano destra portava una boccia di vin bianco. I panni che vestiva eran tagliati all’uso d’occidente; si scorgeva però nella scelta de’ colori tutti vivissimi, e nel modo bizzarro di disporli il gusto de’ paesi ancor barbari onde aveva l’origine. La sua testa conservando ancora le fogge d’oriente, era coperta di bende attorcigliate, i capi delle quali le cadevan sul petto. Avea quel sopracciglio alto, quello sguardo aquilino, quella tinta bruna, e se ardissi dirlo, leggermente dorata, che serban le razze più vicine al Caucaso. Ne’ suoi modi amorevoli spiccavano talvolta lampi d’una natura selvaggia, d’una schiettezza ardita, scevra di rispetti.

Si fermò guardando Ettore e Ginevra, e con parole italiane bensì, ma che sapevano di forestiero per la pronunzia, disse:

— Parlavi di donne, Ettore? Voglio sentir anch’io.

— Altro che donne, rispose Ginevra; si parlava di una danza nella quale noi altre faremmo trista figura.

Queste parole coperte destarono vieppiù la curiosità di Zoraide, ed Ettore narrò anche a lei ciò che avea raccontato a Ginevra.

La giovane rimase sospesa, pensando per qualche momento; poi disse, scuotendo il capo:

— Io non vi capisco. Tanta collera, tanto rumore perchè i Francesi dicono stimarvi poco! Ma non ve l’hanno detto anche più chiaro col fatto venendo nel vostro paese a divorar le vostre biade, a cacciarvi dal vostro tetto; non ve lo dicono gli Spagnuoli al par de’ Francesi, venendo anch’essi in Italia a far quel che fan loro? Il cervo non caccia il leone dalla sua tana, ma il leone caccia il cervo e lo divora.

— Zoraide, qui non siam fra barbari, ove la sola forza decide tutto. Troppo ci vorrebbe a dirti quali ragioni abbia la corona di Francia sul Reame. Devi