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capitolo viii. 99

perto da un baldacchino parimente di marmo pieno di fogliami e d’animali all’uso gotico, ove riposavan l’ossa della fondatrice del monastero.

Questa donna, coperta sino a terra da un velo del color di que’ marmi, pallida, immobile ad orare, sarebbe sembrata una statua posta ivi dall’artefice in orazione, se due lunghe trecce di capelli castani non si fosser mostrate fuori del velo, e se le palpebre, che tratto tratto s’alzavano, non avessero lasciato trasparire due occhi azzurri nei quali si scorgeva il fervore di una caldissima preghiera.

La povera Ginevra (era essa) avea ragione di pregare, poichè si trovava in quei termini ove al cuor d’una donna non bastano le proprie forze per vincer sè stesso. Si pentiva, ma troppo tardi, del partito preso di seguir Fieramosca, e d’unire in qualche modo la sua fortuna a quella dell’uomo che per prudenza e per dovere avrebbe dovuto fuggir più d’ogni altro. Si pentiva d’esser rimasta tanto tempo senza informarsi di suo marito se fosse vivo o morto. La ragione le diceva, quel che non si è fatto si può ancora fare; ma la voce del cuore rispondeva: è tardi: e questo è tardi sonava come una sentenza irrevocabile. I giorni duravano lunghi, angosciosi, amari, spogliati d’ogni speranza di poter uscire di quel travaglio, se non altrimenti, almeno col darsi vinta all’una delle due forze che la combattevano. La sua complessione s’accasciava sotto il peso di questo continuo contrasto.

L’ore della mattina, quelle vicine al mezzogiorno le riuscivano meno difficili. Lavorava di ricamo, avea libri, e l’orto del monastero per passeggiare. Ma la sera! I pensieri più tetri, le cure più moleste parevano, a guisa di quegl’insetti che al calar del sole si moltiplicano e divengono più infesti, aspettar quell’ora per assalirla tutti in una volta. Ginevra allora si rifuggiva in chiesa. Non vi trovava allegrezza, non pace, ma almeno qualche momento di consolazione.