Pagina:D'Annunzio - San Pantaleone, 1886.pdf/304

296 il martirio di gialluca.

circostante, curvo su le ginocchia e su le mani per resistere al rullío.

Di tratto in tratto un’ondata più forte si rovesciava su la prua: l’acqua salsa invadeva il ponte da un capo all’altro.

‟Va a basse!” gridò Ferrante a Gialluca.

Gialluca discese nella stiva. Egli sentiva un calore molesto e un’aridezza per tutta la pelle; e la paura del male gli chiudeva lo stomaco. Là sotto, nella luce fievole, le forme delle cose assumevano apparenze singolari. Si udivano i colpi profondi del flutto contro i fianchi del naviglio e li scricchiolii di tutta quanta la compagine.

Dopo mezz’ora, Gialluca riapparve su ’l ponte, smorto come se uscisse da un sepolcro. Egli amava meglio stare all’aperto, esporsi all’ondata, vedere li uomini, respirare il vento.

Ferrante, sorpreso da quel pallore, gli domandò:

‟E mo’ che tieni?”

Li altri marinai, dai loro posti, si misero a discutere i rimedi; ad alta voce, quasi gridando, per superare il fragore della burrasca. Si animavano. Ciascuno aveva un metodo suo. Ragionavano con sicurezza di dottori. Dimenticavano il pericolo, nella disputa. Massacese aveva visto, due anni avanti,