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258 Mungià.

sicci, con su la pelle della fronte alcune macchie simili quasi a monete di rame, sfiancata come una cagna dopo il parto: la Venere dei mendicanti, l’amorosa fonte a cui va a dissetarsi chi patisce la sete. E giunge Jacobbe di Campli, il gran vecchio dal pelame verdastro come quello di certi artefici che lavorano l’ottone. Giunge l’industre Gargalà su ’l veicolo costrutto con rottami di barche ancora incatramati. Giunge Costantino di Corròpoli, il cinico, che, per una crescenza del labbro inferiore, pare tenga sempre fra i denti uno straccio di carne cruda. Altri giungono. Tutti gl’iloti che hanno emigrato lungo il corso del fiume, dalli altipiani al mare, si raccolgono in torno al rapsodo, sotto il comun sole.

Mungià canta allora con una più varia ricerca di modi, tentando altitudini insolite. Una specie di orgoglio, un’aura di gloria gl’invade l’animo, poichè egli allora esercita l’arte liberalmente, senza prender mercede. Sale dalla turba dei mendicanti, a tratti, un clamore di plauso ch’egli a pena ode.

Al termine del canto, come il dolcissimo sole abbandonando quel luogo ascende su per le colonne corintie dell’Arco, i mendicanti salutano il cieco e si sbandano per le terre vicine. Riman-