Pagina:D'Annunzio - San Pantaleone, 1886.pdf/209


la contessa d’amalfi. 201

letta Kutufà, rientrò nella casa vedovile e sentì il suo pappagallo modulare l’aria della farfalla e dell’ape, fu preso da un nuovo più profondo sgomento.

Nell’andito, tutto candido, entrava una zona di sole. A traverso il cancello di ferro si vedeva il giardino tranquillo, pieno di eliotropi. Un servo dormiva sopra una stuoia, co ’l cappello di paglia su la faccia.

Don Giovanni non risvegliò il servo. Salì con fatica le scale, tenendo li occhi fissi ai gradini, soffermandosi, mormorando:

‟Oh, che cosa! Oh, oh, che cosa!”

Giunto alla sua stanza, si gettò su ’l letto, con la bocca contro i guanciali; e ricominciò a singhiozzare. Poi si sollevò. Il silenzio era grande. Li alberi del giardino, alti sino alla finestra, ondeggiavano a pena, nella quiete dell’ora. Nulla di straordinario avevano le cose in torno. Egli quasi n’ebbe meraviglia.

Si mise a pensare. Stette lungo tempo a rammentarsi le attitudini, i gesti, le parole, i minimi cenni della fuggitiva. La forma di lei gli appariva chiara, come se fosse presente. Ad ogni ricordo, il dolore cresceva; fino a che una specie di ebetudine gli occupò il cervello.