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Era un uomo fraglie, era un petto d’uomo scarno; e il suo canto pareva sorgere dalla profondità del tempio, venire di più giù che la pietra, di più giù che lo spazio di sotterra, fondere in sé le aspirazioni di tutta la stirpe, raccogliere in sé il travaglio di tutte le radici.

Non c’erano più pareti, non c’era più il camino angusto; non c’erano più fantasmi né maschere né frodi.

C’era il fumo del rogo, e il sudore che ingemmava la fronte del cantore sacro.

Nella pausa nessuno più osava parlare o esclamare.

Isnayat mi guardava a ogni principio di canto. Voleva significarmi che cantava per me solo.

Per me solo cantò il canto antelucano, il canto d’innanzi l’alba, misterioso come il messaggio del vento inviato sopra l’affanno della terra da Colui «che è intento ad accrescere la luce».