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notturno 193

mura con l’urto cieco del destino. Il vasto letto la occupa, dove fui concepito e generato. Credo di udire dentro di me le grida di mia madre che, quando nacqui, non penetrarono le mie orecchie sigillate. L’odore indefinibile della malattia mi soffoca. Una mano mi tocca e mi fa trasalire. Una mano fredda mi piglia e mi trae verso la stanza sesta.

È la sesta stazione: il sudario della Veronica.

Una voce piana dice: «È là.» Mi agghiaccia. La riconosco. È quella della serva ammirabile, della creatura fedele, nata dalle nostre glebe, allevata nella nostra casa, chiamata Maria.

«E là.»

È mia madre?

Una povera povera cosa curva, una cosa informe, una cosa di miseria e di pena, abbassata, umiliata, perduta.