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notturno 189


È peggiore dell’altra. Il dolore che ritorna è come inviperito. Si rivolta per mordermi più a dentro.

Allora potevo, a tratti, distogliere gli occhi bruciati. Chinavo la faccia sino a terra. Ponevo la fronte su quei poveri piedi bendati di lana. Serravo il cuore con tutte le costole convulse. Mi pareva d’attanagliarlo e di reprimergli il battito o di mungergli qualche poco di sangue.

Ora non posso non vedere, non posso interrompere questa fissità di supplizio.

Non è un’imagine immobile. Si muove, si muta. E triste, e diventa più triste. È disfatta, e diventa più disfatta. Apre la bocca, e non può parlare la parola umana; non può se non masticare l’anima, biasciare la desolazione.

E mi sembra che le stratte di corda date dal torturatore non sieno nulla in paragone di quel che soffro a ognuno di quei movimenti.

Ma che ho fatto? Che colpa sconto?