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intimo come il romore della conchiglia accostata all’orecchio. Premuti contro il bronzo dei battenti, incominciammo a possederlo, a mescolarci con esso.

L’umidità pareva accrescere il pregio della materia. Come fanciulli curiosi, mettevamo le dita nel fogliame di metallo, palpavamo le piccole teste inghirlandate che s’affacciavano di tra le olive e la fronda. Sopra di noi parlavano i simboli: «Fons signatus, Hortus conclusus».

Attoniti, tra il fogliame andavamo scoprendo le lucertole le lumache le rane gli uccelli i frutti, senza numero. Avevamo nelle dita il piacere dell’artista che aveva modellate le forme, la sua sapienza e il suo capriccio. Quanto più miravamo il bronzo, tanto più la sua pàtina diveniva ricca, possente, profonda. S’arricchiva dei nostri occhi affettuosi, e ci rendeva amore per amore. Sopra di noi parlavano i simboli: «Onu-