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saracena. L’appresi, adolescente, su la mia riva, dal mozzo d’una goletta. Tanto mi piace che, se nomino il nome, sento il profumo.

C’è la zàgara di serra: un gruppo di foglie che al tocco risuonano, e nel mezzo i bocciuoli duri. A uno a uno li sento. Qualcuno è chiuso, qualcuno è fenduto, qualcuno è mezzo aperto. Qualcuno è delicato e sensitivo come un capezzolo che teme la carezza. L’odore è candido, acerbo, infantile. Ma bisogna cercarlo con le narici in mezzo alle foglie diacce e stillanti che m’inumidiscono il mento e mi entrano in bocca.

C’è l’amorino. È il più fradicio di pioggia, è tutto pregno d’acqua di nubi. Più odora all’apice, come l’ultima falange delle dita che lavorano i belletti. C’è in fondo al suo odore un che del fico latteggiante, del piccolo fico verdino. C’è pure, se insisto, un che della susina claudia ma-