L’Asiatico già tende le braccia
trepidamente verso l’imo ignoto:
attonito, fra i calici de ’l loto
ei vede arguta ridere una faccia.
Insidiose, in lunghi allacciamenti,
ondeggiano le najadi lascive:
balenano di riso ne le vive
bocche le chiostre nivëe dei denti.
Sogguardan elle con languida brama
Ila, si torcon elle in fra le piante.
— O figliuolo del re Teodamante,
non così dolce mai Ercole t’ama! —
— O tu, de li Argonauti diletto,
a cui cingon la fronte i bei narcissi! —
Discopron elle in tra’ capei prolissi,
ridendo a sommo, il ventre bianco e il petto.
Or, prono a la soave riva, il lene
Ila sente vanir sua conoscenza,
quasi di bocca la divina essenza
d’un frutto gli si strugga per le vene.
E le najadi in lunga teoria
sorgon, gli avvincon de le braccia il collo.
— Ila chiomato, oh simile ad Apollo! —
Ei beve, ei beve; e il caro Ercole oblìa.