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da quel povero volto illividito, mettendole nel volto il respiro caldo, chiamandola sommesso, a tratti, con la bocca presso alli orecchi di lei. Ella doveva sentire; perchè allora nel globo giallognolo delli occhi ricompariva l’iride verso li angoli, e nelle labbra lottava contro il battito convulso un moto vano di sorriso. Il sole non entrava ancora nella stanza; un fiammeggiamento d’oro si frangeva su i vetri chiusi. A poco a poco nell’inferma il ribrezzo si placava; ella aprì due o tre volte la bocca aspirando l’aria, ad intervalli, debolmente. Come a poco a poco la penetrava il calore, su la faccia il pallore diveniva più dolce. Volse li occhi a quelli che le stavano accanto; potè sorridere allora abbassando le palpebre, senza parlare. Una stanchezza immensa le invadeva tutto l’essere; e in quella prostrazione ella conservava ancora la sensazione del ribrezzo che l’aveva scossa; mentre, dinanzi alla felicità crescente del mattino primaverile, un rimpianto amaro, il rimpianto di qualche cosa d’irrimediabile, singhiozzava in lei. Tutto era finito; ella era vecchia, ella doveva dunque morire. E la stanchezza seguitava ad invaderla: uno smarrimento dei sensi, un tepore grave dalla testa ai piedi s’impossessava di lei.

— S’addormenta - sussurrò Francesca.

— No, sviene - disse Gustavo, pallido, che aveva