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126 | il libro delle vergini |
tamente. Bastava ch’ella avesse la virtù di non cedere a quella spossatezza, bastava ch’ella non si accasciasse, bastava che la nuova aria l’entrasse nei pulmoni, le accelerasse il sangue. Questa fiducia le ravvivava lo spirito, la faceva essere quasi ilare, le faceva amare i clamori infantili, di cui Eva rallegrava le stanze, le faceva amare li squilli di canto di cui la nuora empiva le vôlte. Quel profumo di giovinezza umana che saliva tutt’intorno, e quella benevolenza della stagione nascente l’eccitavano, le davano una specie di energia momentanea che certi liquori dànno, la turbolenta sollevazione di vita che ha l’infermo se oda una musica allegra passare. C’era in tutto questo peró qualche cosa di amaro, l’acredine che viene immancabilmente da ogni lotta. Quando la nuora, vedendola pallida nella zona di sole che traversava i vetri della finestra, smetteva di cantarellare, presa dal rispetto pietoso che hanno i sani per i sofferenti e le chiedeva se proprio si sentisse bene, Donna Clara rispondeva:
— Sì, Francesca, mi sento bene. Cantate pure. Ma il tono sordo della voce svelava una irritazione repressa; e Francesca se ne accorgeva.
— Volete, mamma, che vi faccia preparare il letto?
— No, no.