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favola sentimentale | 119 |
delle loro giovinezze la vecchia casa austera; i segreti dei loro amori si nascondevano all’ombra delli arazzi scolorati ove nella rosea lucidità della seta un bel popolo ignudo di ninfe e di cacciatrici aveva fiorito un giorno. Cesare in braccio a quel piacere si abbandonava con tutto l’impeto oblioso delle nature represse; egli se la vedeva sempre dinanzi quella bella e perversa maliarda a cui la gengiva vermiglia si scopriva sempre nel riso e nel sorriso; egli se la vedeva sorgere tra gl’immani candelabri di noce scolpito, tra i seggioloni stemmati, tra li specchi appannati e macchiati, sotto i baldacchini rigati d’oro, sotto le portiere pesanti, in mezzo a tutte quelle cose morte, da per tutto, erta e procace e sfidante.
Galatea sentiva quell’anelito nuovo; col maraviglioso istinto che a lei dava il morbo, aveva indovinato.
— Fammi morire! fammi morire! - ripeteva ella fra i singulti, gittata come uno straccio dinanzi all’effigie della madre, guardando con li occhi stravolti dallo spasimo quel velo muto, là giù, nella stanza lontana. - Fammi morire!
Ma al fine Vinca partì: il marito la voleva. Fu una partenza improvvisa, in una mattina fredda e grigia di ottobre.
— Addio, Galatea. Addio, Conte. Addio, Cesare.