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dormisse un sonno buono e pacifico di vecchio, metteva un alito di cartapecora e di noce antico nell’aria, metteva turbinii di polvere nelle zone di sole.

Da tempo, Cesare e Galatea passavano le ore così, studiando, in una quiete augusta di monastero. Egli era venuto nella villa dello zio materno a cercarvi la solitudine, a sacrificarvi la bella gioventù, i belli amori: a poco a poco tutte le esuberanze, tutte le irrequietezze della sua natura si agguagliavano in una serenità alta e virile, s’illimpidavano in una veggenza felice; il culto dell’arte a poco a poco gli andava infondendo un non so che di spirituale e di sacerdotale anche nell’aspetto. Fu l’opera lenta della consuetudine, fu l’opera di quella luce mite in cui egli viveva, di quel crepuscolo ove li occhi suoi miopi languivano quasi di continuo, ove su la sua faccia i fiori del sangue impallidivano.

Galatea gli era una compagna taciturna e pensosa, un’aiutatrice, una gentile amanuense che non si sperdeva mai tra i labirinti e li arabeschi delle scritture sapienti. Ella cresceva come uno stelo, cresceva nella grande malinconia di quella casa ove ella non aveva mai veduto sorridere la madre...Povera madre morta! Con che lungo sospiro di amore e di dolore Galatea guardava il velo disteso