dietro, solo, dimenticato, felice di essere tale, felice di quel cantuccio quieto; vedeva una parte della sala da ballo, il resto gli veniva nascosto dall’angolo del muro. Così i ballerini, coppia a coppia, gli comparivano dinanzi di scatto, traversavano leggermente lo spazio che egli vedeva, poi scomparivano, quasi si sprofondassero per ricomparire dopo un minuto, per isparire da capo, come fantasmi, come esseri sovrannaturali, o più semplicemente come quei fantoccetti che scattano dall’interno di una scatola e vi si nascondono, con l’aiuto di una molla. Marcello seguiva con l’occhio i ballerini, si fissava sopra una coppia per vedere quando passava nella sua parte del salone che gli era invisibile, per attenderla e salutarla al suo ricomparire. Tutto ciò per arrestare i suoi pensieri erranti, che lo conducevano chi sa dove, per dominare quello stordimento che lo aveva colpito, vedendo quella sera Beatrice nella provocazione della sua bellezza. Ogni tanto arrivava a distrarsi; l’aspetto del ballo era splendido, i costumi che gli fuggivano dinanzi erano ricchissimi, di una fedeltà storica inappuntabile, le stoffe di broccato, le sete, i rasi, i velluti, le trine, le frange, i gioielli appagavano la sua fantasia. Il marchesino Potenziani, da patrizio veneto del duecento, ballava con la contessa Gabrielli, vestita da israelita, da bella Samaritana, a cui prestavano il suo volto ovale e pallido, i grandi occhi socchiusi, tagliati a mandorla, la bocca un po’ grande e fiera. Il conte di Valnac, da Marco Bozzari, aveva fatto pace con la Turchia, rappresentata dalla viscontessa Latour di Aurray, da odalisca. E paggi, cavalieri, giullari, albanesi, margravii, e ancora una sfilata rapidissima che si trasportava il pensiero di Marcello. Ma tratto tratto, ad intervalli regolari, passavano un moschettiere del secolo di Luigi decimoterzo, il barone Massari, ed una dama