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46 | Cuore infermo |
di berretto; ma laggiù si regolavano ancora i biglietti della folla che viaggia sulle panche di legno. Poi si attendeva il treno da Roma. Beatrice aveva subito ritrovato un buon posticino, mentre Marcello rimaneva ancora un po’ impacciato dinanzi a lei, in quell’aspettazione, in quei minuti di sospensione in cui pare di poter contare ad uno ad uno i battiti del cuore. Ella possedeva sempre quella sua amabile scioltezza, che la faceva star bene dovunque. Sedeva nel vagone con la medesima grazia con cui sarebbe stata nel suo salone. Si guardava dattorno senza alcuna meraviglia; aveva posato il suo mantello foderato di pelliccia. Le sue mani, finemente inguantate di nero, stringevano la borsetta di cuoio dove erano tanti oggettini che le potevano servire nel viaggio. Nel suo abito di castoro blù scuro, succinto, corto, col colletto bianco e dritto da viaggio, col cappellino tondo e stretto, ella perdeva un poco di quell’aria serena e maestosa che aveva sempre avuta. Sembrava più giovane, più piccola; la sua bellezza si umanizzava, prendeva qualche cosa di piccante, di realmente femminile. La fronte troppo statuaria era semi nascosta dal capriccetto di un cappellino bizzarro; vivevano le labbra sanguigne come il melagrano. E Marcello dimenticava tutto, si sentiva invadere da una tenera confidenza che allontanava fra loro due la freddezza del cerimoniale; in quella trasformazione apparente di Beatrice, gli pareva che ella cominciasse ad appartenergli, e questa deliziosa incipienza, che era ancora una illusione, lo empiva di tanto delicato piacere, che egli non profferiva parola, prolungando nel silenzio la festa del suo cuore.
— Ebbene, si parte? — domandò ad un tratto Beatrice, quasi fosse impaziente.
— Giunge il treno da Roma. Partiremo a momenti — rispose lui gittato di nuovo nel dubbio e nell’incertezza.