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42 | Cuore infermo |
— Anche Fanny Aldemoresco ha promesso di venire — disse la figliuola, eludendo altra risposta.
E chinò la testa al cristallo dello sportello per guardare l’arco del Carmine passato allora allora. Continuò a guardare fuori la lunga via della ferrovia che a quell’ora sembra un deserto, il giardinetto con la fontana tutta bianca dove sorge la statua della sirena napolitana, la sirena antica, il cui formosissimo corpo termina in una volgare coda di gallina, immagine della bella, poetica e triviale città; il grande edifizio della stazione centrale, somigliante ad un casolare abbandonato, ad una fabbrica di cui sia fallito il padrone, un edificio troppo vasto, troppo vuoto, troppo muto, con una malinconia strana da ciclope, il cui unico occhio infiammato era l’orologio della facciata.
Nella sala della prima classe aspettavano poche persone. Le fiammelle del gaz erano abbassate, rimanendone sollevate, con la luce troppo vivida, solo tre o quattro. Un gruppo di giovanotti circondava un deputato grasso, tarchiato, dalla calvizie rossa, su cui passava ogni tanto una mano, quasi a temperarne l’ardore; vi era una vecchia signora tutta infagottata nei mantelli, negli scialli, nelle sciarpe, e accanto a lei la sua donna di governo, una tedesca stecchita dal volto duro ed opaco. Le ombre dei divani rossi si allungavano sul marmo del pavimento, mettevano degli angoli stranamente prolungati sulla bianchezza cruda del gesso, di cui erano coperte le muraglie e le grandi colonne. Padre e figlia erano rimasti soli. Gli sposi viaggiavano in un vagone-salone riservato, i bagagli li avrebbero puntualmente ritrovati all’albergo. Tutto era regolato con quel lusso di comodità che previene e toglie di mezzo ogni più piccola noia; pure Marcello si era assentato un momento per sbrigare alcune ultime formalità. Fors’anche lo allontanava un sentimento di delicatezza. Certo,