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330 Cuore infermo

fino e lucido; qui e là, dove le foglie si allargavano, cadevano dei cerchiolini ridenti di luce. Beatrice ne aveva uno proprio sul ginocchio, il che la faceva sorridere: vi appoggiò il dito per sentirselo riscaldare: poi vi mise l’anulare per veder brillare il suo anello d’oro. Davanti a lei si allungava il viale in una distesa di verde e di azzurro che quasi sconfinava. Un ronzìo d’insetti fremeva d’intorno, un ronzìo molto dolce.

— Stai bene? — domandò da capo Marcello.

— Tanto, tanto — rispose lei, sentendo assopire tutte le sue facoltà in quella calma, mentre pareva che una mano molle ed invisibile agitasse l’aria sul suo volto.

— Non desideri niente?

— No; tu se vuoi, fuma pure una sigaretta.

Dopo un momento comparve Giovannina. Portava sulle braccia un cestello di vimini, pieno di rose di maggio.

— Le ha portate Santa, la nipote del custode. Dice che forse piaceranno alla signora.

Beatrice sorrise. Erano rose bellissime: bianche, rosse, a grossi bottoni, appena schiuse, a corolle fitte, largamente aperte; se ne distaccava un profumo a volta a volta piccante, leggero, voluttuoso, pesante.

— Metti il cestello qui, sul tavolo, Giovannina. Ringrazia Santa e donale qualche cosa.

Ogni tanto ella si voltava a guardare quel cestello. Una grossa ape venne a posarvisi. Ella presa una rosa bianca e la odorò lungamente.

— Ascolta, Marcello.

— Che cosa?

— Vorrei far vivere un paio di giorni questi bei fiori. Ne farò dei gruppi che metterò a bagnare nelle coppe del nostro salotto.

— Non ti affaticherà?

— Ma che! I fiori sono lievi.