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326 Cuore infermo

plumbeo della palpebra pesante si molceva; gli angoli gialli del viso s’imbiancavano di nuovo. Era un cangiamento ancora indistinto, ancora molto piccolo, ma non isfuggiva al suo sguardo ansioso che studiava lo specchio. Lo spirito contristato si rinfrancava e così pareva che la migliorìa si estendesse. Ella si arrischiava a camminare nell’appartamento, si allontanava dal seggiolone per quanto più poteva: lo odiava adesso quel seggiolone di cattivo augurio che pareva l’attendesse, la volesse, la stringesse nelle sue braccia per cullarla, per vincerla, per addormentarla nell’ultimo sonno. Dopo due o tre giorni, ella assicurò Marcello che si sentiva proprio meglio; che voleva rivivere; che voleva godersi con lui quella fiorente campagna di Sorrento. E gli ridomandava notizie di questa cosa o di quell’altra, della tal persona, di quella giornata, di quella lettera: ricominciava ad interessarsi al mondo circostante.

— Quando starò bene... — principiavano così tutti i suoi discorsi.

— Quando starai bene... — era l’eco, il ritornello di suo marito, che si affidava ciecamente in quella migliorìa.

Scompariva in lei quella indifferenza suprema, per cui la mente sembra già staccata dalle cose terrene, quel disinteressamento per cui il morente par già fatto cosa di un’altra sfera, pare già lontano, trattenuto appena da un filo invisibile. Beatrice si riattaccava agli incidenti della giornata, tornava a subire le influenze esteriori, riprendeva il suo posto nella grande agitazione, nell’urto continuo degli interessi umani. Aveva chiesto a Marcello le lettere di Mario Revertera; sorrise ironicamente alla noncuranza con cui suo padre sminuiva i timori del genero sulla salute della figlia: «Scrivi a papà che sto meglio, molto meglio, che non si dia