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320 Cuore infermo

Ebbene, un giorno, all’impensata, Beatrice riaprì i suoi grandi occhi e gli disse:

— Manda la servitù a Sorrento, a Villa Sangiorgio. Vi potremo andare fra otto o dieci giorni.



In quei primi giorni del maggio, Sorrento rappresentava il colmo della primavera, nella giovinezza allegra del suo verde e dei suoi fiori. Nei declivii delle sue colline, negli splendidi giardini, nella vegetazione esuberante che scende fino alla costa a coronare la cima delle roccie ed allungarsi in braccia di verde giù per la parete a picco, vi era un abbandono generoso, una profusione magnifica della natura. La vegetazione si stendeva, si sbandava, rifluiva da tutte le parti. Sulla strada maestra, fra i viottoli biancastri e polverosi del brecciame, sorgevano dei fili d’erba; dovunque fosse un pezzettino di terreno quanto un’unghia, nasceva una pianticina. Ma i vasti alberghi di Castellamare erano quasi deserti; lo Stabia’s Hall, enorme baraccone di legno, aveva un’aria goffa, tutto chiuso; da Castellamare a Sorrento le ville avevano le porte serrate a catenaccio, le gelosie sprangate; solo in capo a qualche viale appariva un giardiniere in maniche di camicia, cappello di paglia, un rastrello in mano. I villeggianti non conoscono che l’autunno della campagna, la triste e ultima stagione che abbassa sul verde il suo velo grigio di malinconia; la primavera la passano in città, inconscii dell’immensa fioritura, nella temperatura incerta, nelle vie asciutte ed aride della città. Beatrice e Marcello, come procedevano nel loro lento viaggio, pensavano che sarebbero stati molto soli e se ne allietavano. Nel pomeriggio tranquillo, Beatrice si sentiva ristorata, quasi migliorata. La vettura