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32 | Cuore infermo |
Uomini, donne entravano nel salone un po’ pallidi, con un leggiero brivido di freddo portato dalla cappella patriziale, dove era una semi-oscurità triste, dove la voce del vescovo officiante era aspra, dove la cerimonia era durata troppo. Invece, nel salone l’allegra luce, l’aria tepida, i fiori dappertutto; le donne si raddrizzavano lentamente in quel calore, quasi ristorate e carezzate dai profumi, qualche sospiro di benessere sollevava un petto oppresso; le guance si coloravano, qualche sorriso appariva. L’etichetta rigida si rammolliva nella benevola indulgenza del sole. I giovanotti parlavano fra loro, ridevano modestamente dietro la placca del cappello portato all’altezza del viso. Si univano, a quelli dei fiori, i sottili profumi della violetta artificiale, del muschio, della seta confricata; un ventaglio di leggerissime piume si agitava.
In capo alla sala, presso il tavolino, era la sposa nella bianchezza morbida del suo abito nuziale. La corazza chiusa sino al collo, le maniche lunghe sino al polso le danno un’aria castissima, ma il raso si tende senza una piega, magnificamente, dal collo ai fianchi; è così assettato, così terso, che quel busto sembra scolpito; dietro, il lunghissimo strascico ha dei riflessi argentini, azzurrognoli, tremolanti, su cui il velo mette un’ombra trasparente. Beatrice conserva la sua calma tranquillità, l’aspetto soddisfatto di sè e del suo mondo. Accanto a lei la bella e fredda figura di Marcello Sangiorgio, punto commosso, lo sguardo errante talvolta; la marchesa di Monsardo, matrina della sposa, una siciliana nata a Parigi, vestita con falsa semplicità, senza gioielli, velando sotto la modestia delle palpebre lo sguardo provocante; il duca Mario Revertera, una sagoma finissima di gentiluomo in marsina, con l’abituale sorrisetto che gli incava l’angolo delle labbra; il principe di Sangiorgio,