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30 | Cuore infermo |
feudo, di una famiglia quasi reale, rovinata, ma con l’aria splendida e soddisfatta di una buona madre che ha saputo maritare riccamente le belle figliuole senza dote — la contessa Filomarino D’Anchise, alta, robusta, dalla bellezza opulenta e soda, dai grandi occhi giunonici, che si consolava, in un lusso sfrenato, di sua cognata che le aveva tolto l’amore di suo marito — la contessa Aldemoresco, una zingarella dalla pelle dorata, piccola e magra, che manifestava la sua razza slava nell’amore degli ornamenti chiassosi, nello sfrontato abito rosso che indossava — la Varderhoot, di nome olandese, ma italiana, sposa di un anno, venti volte milionaria, un po’ stramba col suo visetto da cagnolino, vestita semplicemente di lana grigia, con due enormi brillanti agli orecchi — la Cantelmo, tutta seria, coi ricciolini ravviati, l’abito gravemente oscuro, l’andatura corretta, ma la gonna un po’ corta per lasciar vedere lo stivalino di raso — ed altre venti, trenta dame, tutta la fine araldica, quella che si trova insieme dappertutto, compatta e fedele, quasi avesse bisogno di affermarsi numerosa. Nessuna giovinetta, come vuole l’uso. Un abbagliamento di colori, fusioni armoniche di tinte smorte, dissonanze acute di tinte forti che irritavano e seducevano la vista, velature fioccose di merletti, uno scintillìo di gemme, un trionfo della eleganza raffinata, costosa più del lusso sfacciato.
Dall’altra parte la nobiltà maschile. Giovanottini biondi, femminilmente belli, cresciuti troppo presto, baciucchiati troppo dalla madre, venuti su fra le gonne donnesche, la pelle delicata, il collo grazioso, le mani bianche; giovanotti bruni, pallidi, dal tipo napoletano, corretto da un contegno composto; qualche figura malaticcia, nelle cui vene scorre lento il sangue impoverito e viziato di quindici generazioni; qualche figura corrosa, mezzo