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Parte prima 27


giusto una grande rosa incappucciata si tingeva di quel riflesso, rassomigliando stranamente di profilo alla guancia riscaldata di una donna.

Ad un capo del salone un tavolino. Sovr’esso posato un librettino elegante, civettuolo, legato in lucida pelle azzurra, con le lettere di argento sul dorso; accanto un librone nero, col dorso di cartapecora, col taglio sporco, consunto agli angoli, donde appariva la cartapesta dell’anima di cartone, un registro rozzo, il quale portava le tracce di tante mani diverse, che lo avevano aperto e brancicato. Accanto al tavolino una mensola ovale, dove sulla lacca posavano gli scrigni piccoli, grandi, ovali, a cuore, in pelle bruna, in raso, in seta, gli scrigni che contenevano i gioielli di Beatrice Revertera, i doni del padre, della madrina, dei parenti, il corredo di quelle pietre belle, fredde ed inutili, che le donne amano tanto. Verso le undici, la fanciulla era venuta a visitare il salone in compagnia del maggiordomo, approvando col capo le spiegazioni che egli le dava, sostando a tratti, consigliando qualche lieve cambiamento, leggendo alcune lettere di augurio che tirava fuori dalle grandi tasche del suo abito di cascimirro; poi aveva fatto chiamare suo padre.

— Ti pare che vada tutto bene, padre mio? — chiese ella.

Egli inforcò l’occhialino, guardò dattorno, fiutò l’aria: parve soddisfatto.

— A meraviglia, Beatrice. Sei stata nella cappella?

— Vi sono stata; tutto è in regola laggiù.

— Benissimo. È per l’una, nevvero?

— Sì, per l’una. Anzi ti chieggo permesso: vado a farmi vestire; — e si avviò.

— Ascolta, Beatrice — disse Mario Revertera.