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268 | Cuore infermo |
Marcello accanto a sua moglie. I due rimanevano in silenzio.
— Dite qualche cosa dunque, Beatrice. Ci guardano. Non possiamo fare da statuette di caminetto, che si contemplano senza parlare. Siamo ridicoli, in fede mia.
— Io no, duca — rispose ella, freddamente, facendogli intendere quanto la offendesse.
— Hai ragione. Scusami. Sono ammalato questa sera. Se venisse zio Domenico, andrei via.
— Vuoi che andiamo?
— Dove?
— A casa.
— Quale casa?
— La casa nostra.
— Ah!... la casa nostra. No.
Tacquero di nuovo. Marcello era irrequietissimo, tormentava i suoi mustacchi.
— Questo teatro è opprimente — mormorò — il mondo è opprimente, il cielo è opprimente...
A lei le parole correvano sulle labbra, ma le labbra non osavano schiudersi. Ogni minuto che volava via, le pareva un tesoro perduto. Un’idea le tormentava la mente: «se non parlo, egli parte questa sera». Ma non poteva parlare, Marcello era così lontano, così lontano da lei! Quella donna glielo aveva tolto così intieramente!
— Me ne vado — disse egli improvvisamente, alzandosi.
— Non ritorni più?
— Non credo. C’è zio Domenico che ti accompagna.
— A che ora vieni a casa?
— Non so. Addio.
Ed uscì. Lei impallidì come la cera. Le aveva detto addio, non a rivederci. Partiva, era chiaro. Nè ella aveva