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Parte quinta | 263 |
salissero a dar loro l’aspetto di un frutto fragrante e maturo. Dei busti perfetti e modellati nelle corazze attillatissime, si avanzavano sul davanti del palco, con un’audacia tranquilla e sicura. Il rossetto di certi volti diventava quasi delicato, quasi naturale. Sotto il fuoco degli sguardi desiderosi che passavano attraverso le lenti degli occhialetti dalla platea, le gole rotonde e piene rimanevano immobili e provocanti. Certi sapienti sorrisi schiudevano le conscie labbra. Certe treccie si abbandonavano, quasi scomposte, sopra un seno senza gioielli. Certi capelli neri si rialzavano energici sopra una testa giunonica, denudando una nuca forte, dove segnavano una riga nera come l’inchiostro.
Beatrice Sangiorgio era nel suo palchetto con suo zio il conte Domenico. Il vecchio galante, nella tenuta di rigore, con la lente d’oro, le basette bianche all’inglese, si ringalluzziva nella compagnia di una bellissima donna come sua nipote. Invero la duchessa era meravigliosa quella sera. Portava il suo abito di raso bianco, quello delle nozze, che non aveva mai più messo e che aveva indossato quella sera, per uno strano capriccio. Il busto era basso e semplicissimo, ornato alla scollatura da una lieve trina bianca. Due dita di maniche solamente. Ma dalla gola sul petto, sulle spalle, scendeva una riviera di brillanti; una pioggia lucida in tanti fili vividi folgoranti; sul capo un diadema a margherite di brillanti, come un’aureola; alle braccia, ai polsi, i braccialetti di brillanti come una zona di luce; la mano sinistra, nuda, fidiaca, aveva le dita piene zeppe di anelli gemmati e luminosi. Era un abbigliamento, un fuoco liquido, uno sfolgorìo. Come ella si moveva, dei fasci di luce partivano da lei. In mezzo a tanto fulgore la carnagione pareva trasparente, di un luccicore latteo d’opale; gli occhi raggiavano, con uno sguardo fino