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260 | Cuore infermo |
servo, portando qualche scialle, l’occhialino, il ventaglio. Le giovanette passavano due a due, nei loro abiti bianchi, tenendosi pel braccio, guardando alla sfuggita dal lato dei giovanotti, fingendo sorridere fra loro, mentre l’angolo del sorriso andava altrove. Ma l’arrivo era scarso; ed è spettacolo molto minore della partenza. Le più belle, le più aristocratiche signore giungono quando la musica è principiata da un pezzo: trovano lo scalone libero. Poi è buon genere arrivare tardi. La piattaforma era ingombra; vi si faceva un vocìo insolente. Un marchesino aspettava la sua fidanzata che era in ritardo. Un semplice cavaliere attendeva la sua amante col marito, che era un suo amico affezionato: e borbottava contro le insopportabili pretese delle donne maritate. Gli amici attorno scherzavano e si burlavano di ambidue. In un angolo si faceva della grossa maldicenza sulle signore che passavano; si narrava qualche storiella indecente, frammezzata da grosse risate.
Quella personcina bionda, dall’abito azzurro, dall’aria verginale, dal corpo slanciato che parea volesse volare al cielo? Tre innamorati, un quarto in aspettativa, un quinto che avrebbe sposato. E quelle due giovanette in rosa, con gli occhi neri, le roselline fresche nei capelli castani? Oh! quelle due, angioli di virtù: i maldicenti prendevano un aspetto serio e composto, come gente che sa fare le debite eccezioni in favore degli angioli. Si diceva ancora che l’Africana sarebbe fischiata. La Commissione teatrale era incapace. Gli abbonati dovevano farsi sentire. Nel piccolo caffè un rumorìo di bicchieri e di vassoi, gli ordini rapidi dei camerieri che s’incrociavano, coprivano quasi il vocìo dello scalone e dei corridoi. Di fuori giungeva il grido acuto di un monello che offriva il Piccolo agli spettatori in ritardo. Qualche uomo grave leggeva il giornale sotto il becco