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Parte quinta 257


chiedeva a sua madre la verità. Non la conosceva essa la verità: la madre avrebbe dovuto dirgliela. Da lei aspettava il consiglio. Qual era dunque la buona via? Qual è il segreto della nostra esistenza? Qual è la parola della felicità? Si vive senza amore, o la vita stessa è amore? Doveva ella cedere, doveva ella combattere? Qual era il suo dovere? E mentre le indirizzava queste domande, ella fissava il ritratto come se avesse voluto strappargli le risposte. Nulla: il ritratto sorrideva malinconicamente. Ella aveva frugato nelle carte di sua madre, per trovare una parola di guida, un lampo di luce: erano lettere affettuose, piene di soave mestizia. Luisa Revertera si affliggeva perchè moriva; ma si consolava, perchè amava. Il problema rimaneva insoluto per Beatrice. A chi chiedere? Ella ricadeva ogni giorno nel dubbio. Voleva e disvoleva ad ogni istante. Quando un trasporto la signoreggiava, quando era travolta dal suo amore, ella obliava l’infermità del suo cuore, si lasciava trasportare, travolgere; ma quando l’assaliva l’attacco del suo male, ella era presa dall’orribile paura di morire troppo giovane, come sua madre era morta. Poi, il cuore si calmava; ella principiva da capo a sperare...

Così talvolta la fredda alba invernale la sorprendeva ancora sveglia, con gli occhi spalancati e senza sonno, con l’anima indecisa, conturbata, contristata più di quanto fosse la sera prima. Ella provava un grande senso di abbandono dopo tanta tensione delle facoltà; ma il loro lavorìo era stato inutile, ingrato, infecondo. Ella errava sempre, alla cieca, in una via ignota, ignara della buona, come aveva errato nel parco di Sorrento; ella errava, inciampando, traballando, con l’angoscia di perdere forse quanto poteva renderla felice, maledicendo alla propria ignoranza.


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