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254 | Cuore infermo |
anche ella camminasse. Comprendeva che egli voleva stancare il suo corpo, per avere almeno il riposo nella stanchezza fisica. Quasi che il denso legno della porta non fosse tra loro, ella lo vedeva sempre più abbattuto, sempre più misero ed infelice. Ella, mentalmente, faceva una preghiera al Signore, perchè ridonasse almeno a lui la pace. E come si prolungava questa passeggiata notturna e monotona, simile a quella del prigioniero nel suo carcere, ella veniva colpita dal funesto presentimento:
— Egli non può più vivere accanto a me. Una queste notti fuggirà con lei, in un paese lontano ed ignoto.
Si quietava solo un poco quando egli andava a letto e spegneva il lume. Allora ella andava a pregare allo inginocchiatoio; pregava per isfogo, senza osare esprimere un voto. Più volontieri si dirigeva al ritratto di sua madre che aveva a capoletto. Non le sapeva dir altro che: «Mamma mia, mamma mia!» ripetendolo molte volte, ma questo finiva per consolarla un poco. Andava a baciare la fredda serratura della porta, quasi che fosse la fronte del dormiente, poi si coricava anche lei. Ma queste erano le migliori notti, le più rare. Le cattive erano quando Marcello tardava. Beatrice veniva presa da quella pena crescente di chi attende, da quella pena così lunga, così crudele. Per qualche tempo restava seduta, immobile, origliando. Niente. Si alzava e andava presso il balcone, per udire se qualche carrozza si fermasse dinanzi al portone. Niente. Ritornava alla porta: silenzio, oscurità. S’incoraggiava ad avere pazienza: non erano che le due, il club del Whist si chiude molto tardi; dopo il teatro si va a cena con amici. Ma queste sagge riflessioni le bastavano solo per cinque minuti. Dopo s’impazientiva di nuovo. Per ingannare il tempo,