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252 Cuore infermo


mostrava inquieto, troppo allegro o troppo triste, capriccioso. Giocava spesso.

Così Beatrice ebbe vagamente l’intuito del singolare potere che esercitava su quei due esseri. Come essi la addoloravano, ella era capace di addolorarli; intendeva vagamente che Lalla la ricercava, attratta dal fascino irresistibile che ha la sofferenza; intendeva che Marcello, sospettoso di uno scoppio, comparisse sempre dove le due donne potessero incontrarsi — malgrado che questo inasprisse la sua ferita. Come agonizzava lei, nel segreto del suo cuore, senza che altri se ne accorgesse — ella sapeva che quei due agonizzavano. Gli anelli della stessa tormentosa catena stringevano ed ammaccavano i polsi di tutti tre. Erano avvinti, indissolubilmente. Beatrice leggeva sulle loro fronti la traccia di quel male che ella portava nell’anima. Più fortunata di essi, ella nulla rivelava. Ma uguali dovevano essere le lotte, le lagrime, le grida disperate, i singhiozzi, le veglie. La forma vivente del suo cruccio, essa la ritrovava in quei due. Una sera, in un concerto Lalla era lontana da lei. La contessa era venuta a malincuore, ma decisa a non guardare Beatrice, a non salutarla, a non avvicinarla. Pure, quasi senza volerlo, la salutò; la guardò di lontano per tutta la sera; e sullo scalone si trovarono daccanto, scesero insieme. Marcello presente, non potendo resistere, era partito alla metà della serata. Beatrice si accorse di tutto. Allora fu presa da una orribile paura.

— La mia presenza impedisce che si amino. Una di queste notti fuggiranno insieme, in paese lontano ed ignoto — pensò fra sè. E questo pensiero le tolse l’ultima tranquillità, il riposo breve della notte.