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250 | Cuore infermo |
Beatrice Sangiorgio non poteva rinunziarvi d’un tratto. Era la sua vita, il suo mondo quello, e appartarsene completamente era impossibile. Evitava l’assiduità, ma non poteva tutto evitare. Poi, temeva la solitudine. L’esteriorità di quei piaceri arrivava talvolta a distrarla. Almeno si sottraeva a sè stessa. Si gettava con un certo trasporto nei divertimenti, credendo di appagare in essi una piccola parte dei suoi desiderii indefiniti. La gente attorno la osservava molto. La plastica serenità sparita dal suo volto, quella mobilità nervosa che vi era subentrata, la rendeva seducente. Era più viva. Gli abiti la ornavano di più, i gioielli prendevano un maggior significato sulla sua persona. Qualche sera, dei fiori freschi s’illanguidivano sul suo petto, quasi bruciati dal contatto. La sua acconciatura diventava meno statuaria, più femminile; sui fondi oscuri delle stoffe spiccava sempre un punto vivido, un nastro, un fiore, un gioiello, un punto rosso, una traccia ritrovata e perduta di passione. Così i giovani la circondavano spesso. Qualche corte timida si permetteva di manifestarsi. Infine si credeva alla sua virtù, come a quella di tutte le donne cui si comincia a far la corte; ma era sempre una moglie tradita dal marito. I più acuti osservatori, quelli che si vantavano di conoscere il cuore umano, sentenziavano che ella cercava distrazioni e che poi avrebbe trovata una distrazione. Ella non s’accorgeva di nulla. Badava a mostrarsi felice, badava a non tramutarsi in volto, quando incontrava Lalla D’Aragona.
Poichè, se Beatrice era arrivata talvolta a sottrarsi a sè stessa, non si sottraeva agli incontri con Lalla, con suo marito, con Paolo Collemagno, con Amalia Cantelmo, con suo padre, con la marchesa Monsardo, con Fanny Aldemoresco, infine con quanti potevano ricordarle il suo stato. Specialmente la contessa D’Aragona.