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Parte quinta | 233 |
Qualche volta ella si fermava davanti allo specchio, occupandosi nella contemplazione di sè stessa, sorridendosi. Ogni tanto, come il periodo cresceva, ella si chiedeva che fosse tutto questo.
Un giorno ella aveva prodigato un’ampia elemosina ad un povero diavolo che vendeva certe brutte oleografie. Si era fatta raccontare la sua storia, una famiglia lunga, bambini ammalati, una vecchia nonna; il povero uomo aveva pianto, rasciugandosi le lagrime con un fazzoletto lacero. Ella gli aveva dato del denaro e promesso di mandare la Giovannina con biancheria; egli era partito pallido dalla gioia, lasciando umilmente sopra una sedia le sue brutte oleografie. Più tardi Beatrice le ritrovò; si mise a sfogliarle, sorridendo dei colori forti, dei soggetti comuni, delle fisonomie volgari. Le avrebbe donate alla Giovannina. L’ultima rappresentava il solito castello medioevale, dove uno stereotipo falconiere bruno bacia sulle labbra una castellana bionda. D’un tratto Beatrice comprese. Tutta la sua persona ebbe un fremito; ella portò le mani agli occhi, come per pararli da una luce soverchia. Comprendeva, comprendeva. I suoi ricordi la facevano rabbrividire di gioia: sentiva sulle labbra, sul volto, sui capelli i baci lunghi ed innamorati di Marcello; sentiva ancora le sue braccia al collo, quell’abbraccio possente che non aveva saputo vincerla e che ora la faceva fremere di memore voluttà. Prima ancora che ella amasse, era vissuta nell’amore. Vi era vissuta senza gioie e senza dolori, ma il suo cuore, le sue fibre lo avevano respirato, assorbito, si erano impregnate di esso. Era soprassatura d’amore. Ora lo portava in sè, nel seno che si sollevava anelante, nel