non si rialzavano più, con la loro ardita eleganza, sulla sommità del capo, ma ricadevano sul collo, un poco sciolti, quasi stanchi. Adesso Beatrice non soffriva più che Giovannina la pettinasse; si acconciava da sola, allungandosi a disciogliere le trecce, passandovi lentamente il pettine, strisciandovi lievemente le dita, provando un leggiero brivido di piacere. Come a Sorrento, ella restava quasi tutta la giornata in vestaglia, illanguidita, incapace di fare uno sforzo per sollevarsi, farsi vestire ed uscire. Ma le sue vesti da camera erano splendide, piene di merletti, piene di ricami, dalle stoffe morbide, con uno strascico da abito di ballo; ogni giorno fantasticava su qualche cosa di più elegante, di più ricco, scriveva alla sarta, e dopo cinque o sei giorni era fatto il miracolo. Come a Sorrento ella rimaneva in calze di seta ricamate, in pianelline di velluto. Si occupava solo di queste cose. Il lusso serio di una volta si cambiava in lusso civettuolo, tutto per sè, tutto interno, un lusso capriccioso e malaticcio. Ella non metteva più gioielli. Aveva lasciato all’anulare della destra la fascia d’oro del matrimonio. Quelle mani ardevano e s’agghiacciavano insolitamente; diventavano sempre più bianche, ed ella si perdeva a contemplarle, quasi cercasse di scoprirvi un segreto. Volentieri si abbandonava nella sua poltroncina prediletta, il corpo inerte, i piedini sullo sgabello, la testa appoggiata alla spalliera, sognando, addormentandosi, risvegliandosi per sognare da capo. Era stanca dal mattino; aveva certi stiracchiamenti voluttuosi, certe pigrizie del corpo incantevoli. Quando si alzava, la sua andatura era molle, una flessibilità ondulatoria percorreva le linee di quel bel corpo. L’alto dell’abito, sempre un po’ aperto, lasciava vedere il collo bianco che si gonfiava talvolta in un sospiro.