Pagina:Cuore infermo.djvu/231


Parte quinta 231

teva nella figura della prima Beatrice Sangiorgio, calma, quieta, monotona. E riusciva ad ingannarli. Ma essi non la guardavano bene. Come tutto s’era cangiato, così si cangiava la persona. A ventidue anni la sua bellezza classica, plastica, pareva avesse raggiunto il massimo punto di sviluppo. Ora diventava non più bella, ma diversamente bella. L’occhio grigio, limpido, dallo sguardo chiaro come un cristallo, sembrava diventato più cupo di tanto; di sera era nero. Le palpebre socchiuse si rialzavano con un moto dolce, lo sguardo si era fatto lungo, lento. Un’ombra bruna, traccia di veglia, traccia di pensiero, lo sottolineava talvolta. Le parti immobili del viso s’erano animate; un piccolo fremito le dilatava talvolta le nari, dando un po’ di vita a quel profilo severo. Era caduto quel perenne sorriso delle labbra dischiuse, quel fiore eterno di una bellezza inconscia. Spesso la bocca diventava pensosa; allora gli occhi parevano più grandi, le guance si assottigliavano, perdevano la loro rotondità, mentre il mento risaliva un poco. Tutto il volto smarriva la sua regolarità così perfetta. Le linee cangiavano di posto; alcune parevano si fossero spezzate. L’espressione unica, statuaria, esterna, era scomparsa; veniva l’espressione molteplice, vitale, interna, nobilissima, a cangiare, a modificare la soverchia correzione di quella fisionomia. A volte un pallore terreo, opaco, pauroso si diffondeva dalla fronte al collo; a volte ella si faceva tutta bianca, in una trasparenza perlacea, come se tutto il sangue fosse partito da quel viso di porcellana candida; a volte un pallore infuocato, febbrile, quasi spannato di rosso. Quel delicato roseo-diffuso della carnagione era surrogato da ondate di sangue vivido che lasciavano due rosette sulle guance, striandosi verso gli angoli del viso. I capelli