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Parte quinta | 229 |
sua forza; chinava la testa e l’onda la travolgeva. Si ricordava vagamente del motto che hanno i Russell in Inghilterra, un motto italiano: Quel che sarà, sarà. Era la parola dell’impotenza.
Quello che più temeva, era l’occhio di Marcello; ma egli s’era fatto noncurante, non alzava lo sguardo su lei, mancava spesso dalla casa. Rimaneva il conte zio, rimanevano gli amici, rimanevano i servi; costoro, specialmente. Il suo orgoglio sopravviveva grandissimo. Prendeva cura di mascherare le sue debolezze; trovava delle scuse, dei pretesti. Combinava due giorni prima tutte le condizioni per soddisfare un suo capriccio. Si studiava di rendere, come meglio sapeva, ragionevoli le fluttuazioni dei suoi gusti. Era sempre in guardia, alla vedetta di una parola o di un sorriso. Alla lunga il mestiere la stancò, quella schiavitù le sembrò amarissima; quei sotterfugi le furono odiosi; la sua indipendenza ne soffriva. Allora incominciò ad odiare la sua casa. La trovò troppo larga, troppo luminosa, troppo aperta. Le finestre spalancate, lasciavano entrare la via pubblica; la sua casa era come una piazza, dove tutti passeggiano e tutti gridano, come una chiesa molto bella, molto ornata, dove molti accorrono, ma dove nessuno si raccoglie. Quando vi restava sola, quella grandiosità, quella purezza di stile, la rattristavano anche più e si faceva piccina piccina e le pareva di perdersi in un deserto che ella medesima aveva creato. Ci si camminava troppo, l’occhio aveva una veduta troppo ampia. La semplicità era nudità. Non trovava un angolo dove raccogliersi, dove concentrarsi. Una sera ebbe freddo, molto freddo nel grande salone; i divani le parevano