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228 | Cuore infermo |
Aveva anche cominciato a prediligere le penombre confidenziali. Nella camera sua faceva rimanere sempre abbassate le cortine bianche, come un grande ed ermetico sipario, teso fra lei e la vita del mondo esterno. Quando passava nei saloni pieni di luce, le sbattevano le palpebre, si fermava inquieta, chiudendo gli occhi. Al giorno preferiva la notte; si era occupata a fare una scelta di paralumi rosati, verdi, azzurrini, che le creavano attorno, ogni tanto, come ella voleva, un paesaggio roseo, verdino o azzurrino, una fantasmagoria del colore che le piaceva. I suoi sensi sin’allora equilibrati nella loro felice medianità, si affinavano, si assottigliavano, cadevano nella esagerazione della squisitezza. Una volta la solida costituzione le faceva ricercare ed accettare ogni cibo; ora s’era fatta strana anche in questo. Si disgustava di tutto, trovando un sapore di cenere alle cose più delicate. La prendevano certe voglie segrete ed indefinite, di qualche camangiare piccante, nuovo, che le desse una sensazione più forte. Di questo si vergognava molto. Intanto cercava di eccitarsi rosicchiando confetture aromatiche, sorbendo caffè. I nervi si guastavano a tale trattamento; e l’eccitazione cedeva e rimaneva una nausea, un languore doloroso. Passava le giornate così, bevendo dei grandi bicchieri d’acqua per dissetare la sua gola arida e secca.
Ad un punto ella si confessò vinta. Comprendeva istintivamente di non poter più combattere con sè stessa. Era impossibile la guarigione del male sconosciuto che guastava il suo spirito ed il suo corpo. Aveva davanti a sè il pericolo sconosciuto e si trovava indifesa, senza armi alla battaglia. Si lasciò andare al pericolo, chiudendo gli occhi, abbandonandovisi senza resistenza. La sua ferma volontà era morta; ella non regolava più, con la mano bianca, il corso del suo destino. Era finita la