Pagina:Cuore infermo.djvu/227


Parte quinta 227

subito. Ma d’allora in poi i fiori molto olezzanti esercitarono una grande attrazione su lei. A poco a poco, cedendo a quella attrazione, timidamente, temendo quasi di farsi scorgere, se ne fece portare in casa, prima raramente, come per caso, poi più spesso, poi ogni giorno. Dapprima aveva permesso l’adito negli appartamenti solo a quelle piante esotiche, dalle foglie sempre verdi e lucide, senza fiori, che vegetano per anni ed anni nei vaselli giapponesi: piante ingrate, immobili, dalla vita troppo lunga, tanto da sembrare artificiali. Ora non le piacevano più; le aveva fatte confinare negli angoli, in seguito portar via addirittura; e nelle brillanti coppe di Murano, nelle porcellane candide, leggiere e porose, era una festa di fiori freschi, odorosi, che non arrivavano neppure a reclinare il capo ed erano sostituiti dai nuovi. Ella non amava vederli morire, e quella primavera che si rinnovava ogni giorno, le molceva la tristezza dell’autunno, la pesante lunghezza dei giorni piovosi. Ne aveva perfino nella sua camera. Ma questa inclinazione si accrebbe, degenerò, divenne morbosa; quel piacere che le dava l’olezzo dei fiori diventò malsano; la sensazione leggiera e fresca si cangiò in una sensazione acuta, calda, quasi febbrile. I fiori semplici e schietti non le bastavano più: e volle quelli dalle doppie, dalle triplici corolle, che hanno concentrato nel carnoso velluto dei loro petali, nel calice profondo, un profumo inebbriante; volle i gelsomini orientali, le gardenie ceree, le magnolie voluttuose. Si abituava a vivere in quell’aria viziata; anzi una volta si fece recare una grande scatola di profumeria inglese e orientale, profumeria violenta, quasi oltraggiosa e si divertì a sturare tutte le fialette, a paragonare le impressioni, a salire e a discendere la gamma degli odori. Dopo, quando fu sola, impallidì e svenne.