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196 | Cuore infermo |
Alle volte, dalle sue distrazioni, cadeva in un sonno leggiero, quasi un dormiveglia, dove le pareva di pensare ancora, mentre sognava. Se ne svegliava tutta arrossita, con la testa pesante e la bocca amara. La sera suonava il pianoforte, ma uscivano di sotto le dita, ogni tanto, strani accordi che l’autore della musica non aveva scritti. Tale l’impressione dell’autunno su di lei; eppure ella non si decideva ad abbandonare Sorrento.
Quella sera, mentre fuori cresceva il rumore della pioggia, ella era sola nella stanza della torre, occupata a leggere. L’interruzione di Giovannina era stata breve ed ella aveva ricominciata la sua lettura. Dopo un quarto d’ora, se ne stancò e posò il libro; allora solo parve accorgersi della pioggia.
— Come farò ad attraversare il terrazzo con questa pioggia? — pensò tra sè, e sentì scorrersi un brivido per la persona, all’idea che quell’acqua dirotta potesse rovesciarsele sul capo.
Conveniva aspettare. Passeggiò su e giù nella stanza, fermandosi presso qualche mobile, a sfogliare un album, a fissare la cornice di un quadro, ad aprire e chiudere un cofanetto da ritratti. Quel cattivo tempo la rattristava. Per la prima volta in sua vita era dispiacente della solitudine: una voce umana che rispondesse alla sua, le avrebbe fatto un certo piacere. Non si può leggere sempre ed il troppo pensare nuoce. Talvolta la parola che si espande è più bonaria del pensiero che si chiude e si profonda nel suo solco. Desiderò la presenza di un’amica, di Fanny, di Amalia, di suo padre o di Marcello. Erano follie. Bisognava trovare un’occupazione per aspettare che la pioggia cessasse, per scendere giù negli appartamenti. Leggere, non voleva più. Il libro inglese di Dickens, Dombey and Son, la impressionava troppo, con quel sorriso che velava le lagrime, con la