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192 Cuore infermo

— Non fui io a parlarne, Lalla.

— Ipocrisie queste... ah! È Chopin che incomincia adesso. Era una fantasia ammalata, Chopin; ebbi per la sua musica una simpatia di sei mesi. E voi, duca?

— Io? Ho inteso poco di lui.

— La duchessa non ha mai suonato in vostra presenza?

— No, mai.

— È strano... — disse lei, pensierosa. — Udite, udite quanta malinconia in questo ritmo! Non una di quelle malinconie quiete, quasi sorridenti, che sono un dono celeste; ma una malinconia pesante, plumbea, soffocante. Tua moglie è triste, Marcello.

— In fede mia, io credo che tu l’ami più di me — disse lui, vibrandole questa frase come un colpo di pugnale.

— Forse.

— Vuoi tu disfarti di me? Non prendere vie occulte, sii franca.

Ella lo guardò con una espressione di disprezzo. La musica non cessava. Pareva che ispirasse, che accompagnasse il dramma che si svolgeva in quel salotto. D’un tratto Marcello si slanciò versò il balcone per chiuderlo, ma ritrovò Lalla, più pronta di lui, ferma, a sbarrargli il passaggio.

— Non voglio che tu chiuda! Voglio ascoltare — esclamò essa energicamente, con l’espressione di una volontà indomabile.

— Tu ne godi, non è vero? Tu ti consoli di questa mia disperazione?

— Sicura che me ne consolo — rispose ella, ridendo a scatti, impallidendo, come se quel riso la ferisse — non ti sembra un fatto molto grazioso, Marcello? Noi due sul balcone e Beatrice che veglia nella sua torricella