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190 Cuore infermo

Si sorridevano, ora, pensando al giocondo indomani. Una grande quiete scendeva sovr’essi. La tempesta si era allontanata. Il dolore, la collera si rifugiavano in un angolo oscuro dell’anima, lasciandola libera. Si sentivano presi da una tenerezza soave, l’uno per l’altro, quasi che si compatissero. Era così che si riavvicinavano, che si riprendevano dopo le lotte feroci. Li sopravvinceva una debolezza pietosa, complice ipocrita di tutte le loro pacificazioni, Erano lì lì per chiedersi perdono a vicenda, come sempre, balbettando, evitando di guardarsi, con le lagrime negli occhi, coi sospiri affannosi...

Ad un tratto il silenzio intenso che era intorno ad essi fu turbato da un rumore che li fece trasalire. Si fissarono, meravigliati. Di lontano giungeva, ora debolmente, ora più distinto, il suono di un pianoforte; nell’aria calma, di notte, due mani invisibili scorrevano sovra una tastiera misteriosa. Era una musica grave e lenta, poggiata sulle note basse che sono così toccanti, che si allargano nell’anima come vibrazioni sonore; ogni tanto, una nota acuta vi metteva il suo squillo, come un appello, come un richiamo. Era uno di quei pensieri profondi che Beethoven svolge in un’armonia sobria e magistrale, in quelle ondulazioni melodiche che rassomigliano tanto alle gradazioni dolci di un quadro, alle curve morbide di una bellissima statua, all’onda fluttuante di un verso ispirato.

— È lei — disse Lalla, ritrovando il suo cattivo sorriso.

Egli non le rispose. Ambedue ascoltavano ansiosi, quasi che quella musica dovesse ad un tratto trovar parole e rivelar loro un segreto mortale. Essa penetrava nella stanza e la inondava di suono.

— È lei — ripetette Lalla.