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Parte quarta | 187 |
Egli la sollevò dalla poltrona, come si fa di un bimbo infermo, e la condusse fuori il balcone. Ella rimase in piedi, col capo appoggiato allo stipite, con gli occhi chiusi, respirando lungamente. Marcello non osava interrogarla. Provava un’amarezza infinita, non trovando in sè e dintorno a sè che la infelicità completa dell’esistenza; non lottava più, era vinto, era annegato. Nulla si salvava da quel naufragio. Amore legittimo, amore colpevole, cuore aperto e vuoto, cuore chiuso e passionato: egli soffriva per tutto questo e tutto questo soffriva per lui. Il suo sogno era di essere obliato e di obliare; ma non poteva dimenticare, non poteva essere dimenticato. Le lagrime erano in lui, nelle cose che lo circondavano, nelle persone che amava, in quelle che lo amavano. Non un raggio in tanta tenebra. Non poteva analizzare il suo dolore. Era in una grande oscurità, vuota, uniforme, senza colore, senza suono.
Vide che Lalla aveva aperto gli occhi e lo fissava col suo sguardo nero, freddamente provocante. Egli, preso da un impeto di collera, la strinse fra le braccia, quasi volesse soffocarla, coprendole il volto ed i capelli di baci frenetici. Ma Lalla si svincolò ruvidamente da quella stretta.
— No, no! — gridò ella. — Ma non vedi? Tua moglie è là. Essa ci guarda.
E gli indicò con la mano, nella notte, la torricella di villa Sangiorgio, dove un lume brillava. Rimasero stupiti, immemori, l’uno accanto all’altra, intenti a guardare la finestra illuminata, affascinati da quella luce.
Alla piccola pendola suonò una mezz’ora. Lalla alzò gli occhi, ma il paralume posto sulla lampada non le lasciava vedere il quadrante.