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18 | Cuore infermo |
lungamente a vederla soffrire, avrebbe goduto a vedere scomposto quel volto corretto ed inanimato.
— Vuoi tu sposare Beatrice Revertera? — chiese un giorno a Marcello suo zio.
— Sì! — egli gridò, balzando dalla sorpresa, ma pronto nella risoluzione.
In fondo lo pungeva un’acre curiosità di conoscere meglio la fanciulla; si ostinava a supporla molto diversa dalla sua apparenza, e immaginava un segreto, una storia nascosta: sarebbe il fidanzato, sarebbe diventato il marito: la bella sfinge gli avrebbe detta la parola dell’enigma. Invece, no. Beatrice nulla aveva di segreto, Beatrice non era una sfinge. Lo accolse con franchezza, con disinvoltura, rimanendo sempre la stessa, nel suo piacevole carattere, senza variazioni brusche, amabile e sorridente il mattino, amabile e sorridente la sera.
Allora la sua ripulsione, la sua antipatia si accrebbe, s’inacerbì: quella inalterabilità pacifica presso cui si raffreddavano gentilmente i trasporti di qualunque sentimento, quella serena apatìa che disarmava ogni entusiasmo, lo sdegnavano; a volte gli pareva simulazione e se ne offendeva, a volte gli appariva realtà e se ne offendeva maggiormente. E lo sdegno celato sotto una forma di cortesia e di compitezza che Marcello vedeva necessario di adottare, questo sdegno si mutava in odio istintivo, irragionevole, nascosto e cauto nella sua ferocia, fuoco liquido di cui non si riversava una goccia di fuori. Quando la lasciava, dopo due o tre ore trascorse presso lei, trascorse in una conversazione futile, vuota, in cui Beatrice rimaneva eguale a sè stessa: quando la lasciava, scompariva il gentiluomo, restava l’uomo inasprito, irritato, spinto all’ultimo punto della pazienza. La natura selvaggia, brutale, sopravvinceva e quasi lo soffocava. Avrebbe voluto scoppiare in grida,