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176 | Cuore infermo |
per un altro villaggio. In un cortile di casa rustica, una giovinetta massaia, alta, bruna, forte, con un fazzoletto rosso, stretto sui capelli neri, la gonna succinta, metteva le fascine nel forno, già acceso; un garzone le porgeva le fascine man mano, fissandola e sorridendole. Un amante forse: Marcello e Beatrice si guardarono; Marcello fece un moto derisorio, Beatrice sorrise appena, quasi solo per secondarlo. Dopo un momento, riebbero la via maestra, fra la collina e il mare. La luna era calata abbastanza sull’orizzonte, la striscia che segnava sul mare si assottigliava, si assottigliava, come un acutissimo cono d’argento, il cui vertice, ultimo punto lucido, si disperdeva nell’indefinito. Di grado in grado che la luna discendeva, pareva che tutti gli oggetti per una mistica attrazione si allungassero verso lei, si slanciassero con un desiderio verso la sua plaga, come per rimanere un minuto di più nella sua luce. Nulla si oscurava ancora. Ma le piante che coronavano la montagnola, i fichi d’India, dalle foglie tropicali e mostruose che discendevano lungo il tufo, pareva fremessero appena, perchè dovevano essere i primi ad entrare nell’ombra. Ma il cielo rimaneva ancora così latteo, che le stelle piccine vi scomparivano, le più grandi brillavano fiocamente, quasi appannate, quasi smorte di dolcezza. Nella carrozza nessuno dei due si occupava del cielo. Marcello abbassava il capo pensieroso. Beatrice era di nuovo presa dall’inquietudine sottile di dover dire qualche cosa a suo marito, qualche cosa che aveva dimenticato.
— Hai letta l’ultima lettera di papà? — chiese, credendo di aver ricordato.
— No.
— Vuol sapere quanto altro tempo resteremo a Sorrento.