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16 | Cuore infermo |
i piedi a terra, gridava, diventava rosso per la rabbia, pareva che il sangue volesse soffocarlo: con un urto brusco aveva respinta la fanciulletta, che era caduta di peso e si era rotto il cranio. Provava un’altra volta il terrore di quella scena: il silenzio tetro di quella stanza, la bambina distesa a terra, svenuta, bianca, e, al piccolo gorgoglio del sangue che usciva, un ricciolino nero che si agitava. Aveva avuto paura, paura per quella faccina smorta, per quel tappeto che si macchiava, per la testolina infranta che avrebbe voluto risaldare con gli occhi; tanti anni erano trascorsi, molti anni, ed egli si desolava ancora per quel ricciolino nero che si muoveva, lambito lievemente dal sangue che gorgogliava. Era quello il punto doloroso del passato. Quello: un altro il presente. Beatrice... Beatrice. Chi era Beatrice?
Nel breve e rigido pomeriggio invernale, sotto i nudi alberi della Villa Nazionale, l’aveva veduta la prima volta. Ella era vestita di verde cupo; nella pelliccia di volpe russa che guerniva l’abito, brillavano dei fili argentei; una mano reggeva il pesante strascico e l’altra portava aperto l’ombrellino di seta nera, dando a quella testa uno sfondo bruno dove il sole invernale metteva una sabbiolina luminosa, simile al campo d’oro di certe madonne antiche. La fanciulla camminava accanto al padre, con un passo eguale, quasi ritmico, guardando con i suoi grandi occhi, che avevano il freddo fulgore dell’acciaio, ora l’orizzonte, ora un albero, ora un bambino, senza alcun interesse, ma senza noia; salutando gli amici, sorridendo a qualche amica, scambiando qualche parola col padre, con un bel movimento del capo e delle labbra. E poi? Nulla. Il pensiero si smarriva da capo. Egli rammentava invece i suoi folli amori di giovanotto, amori dal fuoco alto e rapido, simpatie irresistibili, passioni furiose e brevi, dove aveva gittata