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Parte prima 15

II.


Quando rientrò nella sua camera, Marcello Sangiorgio serbava sempre il suo freddo contegno inglese. Ma appena la porta fu rinchiusa, una orribile convulsione di collera gli attraversò il volto, scomponendolo da cima a fondo. Strappò con le dita tremanti la cravatta ed il goletto. Soffocava. Seduto presso la scrivania, immobile, in una posizione forzata e dolorosa, coi gomiti fortemente puntati sul legno senza provarne l’intormentimento, le tempia serrate fra i pugni chiusi, si vedeva solo l’angolo delle labbra che tremava allo stringimento dei denti. Non singhiozzava, non piangeva, non sospirava: la sua collera, lungamente vinta, rimaneva ora condensata, fiera e sdegnosa della libera via dell’espansione.

Ora egli combatteva a voler dominare il suo pensiero che gli sfuggiva: quando per un istante riusciva ad afferrarlo, il pensiero se ne vendicava, trascinandoselo dietro, per un laberinto inestricabile di idee indifferenti, di idee inutili, di impressioni lontane e disparate; e del momento presente, così angoscioso, perdeva la conoscenza esatta, restandogliene solo l’angoscia. Ed i ricordi che ritornavano, le impressioni che si riproducevano, avevano tutte un punto tormentoso e desolato. Una scena d’infanzia gli riviveva nella mente e, scacciata, riappariva con una insistenza che rassomigliava alla fissazione. Da bambino era stato violento e testardo nei suoi desiderii. Un giorno, una sua piccola amica, una bambinetta capricciosa, per uno strano ghiribizzo, aveva rifiutato di giuocare con lui. Egli l’aveva pregata due o tre volte, promessole un fiore, un confetto, una bambola; ella, incaponita, ancora a dir di no. Egli batteva