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pretensiosa divisa, sorrise. Aveva ricevute molte di queste lettere in tre mesi. Da principio, una per settimana, poi due, poi tre, ed infine la sua ignota corrispondente gli aveva scritto ogni giorno. Arrivavano volgarmente per la posta, come non mai lettere simili arrivarono, adorne dell’ignobile francobollo da un soldo. Cominciavano: Dolcissimo amico, non portavano data, non portavano firma, e, malgrado la prolissa espansione dello stile, era evitato con cura ogni particolare, che desse una traccia di colei che scriveva.

Perchè, naturalmente, era una donna che scriveva. Nelle prime lettere aveva scritto che era una donna già invecchiata, ma in seguito aveva confessato di essere giovane e disillusa, colle prime lettere aveva protestato una viva e pura amicizia per Marcello. Gli scriveva così, come ad un amico affezionato, per consolare di uno sfogo una vita crucciosa e monotona. Ella divagava in variazioni poco nuove sulla santità di certi legami che escono dal consueto, sulla innocenza di un affetto indeterminato, incorporeo e che tale sarebbe sempre rimasto; tutto quello che diceva, era dettato in una forma graziosa, quasi carezzevole, ma sotto le sue parole si sentiva un vuoto completo, vuoto di idee, vuoto di sentimento. Era il superficiale chiacchierìo di donna che si arrischia nelle teorie platoniche, esagerandole. Marcello leggeva, leggeva con una certa curiosità, ricercando sempre una frase speciale, un giudizio rivelatore; ma non trovava nulla. In seguito si delineò qualche contorno. La corrispondente si stancava delle nuvole. Non voleva essere conosciuta da lui; ciò avrebbe guastato tutto. Aveva dei doveri — odiosi. Non poteva ricevere lettere. Descriveva la paura, il batticore con cui impostava, in una buca remota, la lettera. Non si sarebbero visti mai, mai. In cielo, forse, un giorno. Era ascetica,