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114 Cuore infermo

— Io non amo molto i meklemburghesi: sono po’ pesanti. Ma ci serve un’altra pariglia. Quei cavalli lì sono in moda.

— Infatti; e la voga dura.

— Ne parlerò a Giovannino il cocchiere.

— Bravo, sarà bene così.

E Beatrice raggiustava il merletto dei suoi polsini, mentre Marcello fissava la cornice di un quadro. Allora interveniva lo zio, la conversazione si rannodava, leggiera, senza importanza, senza approfondirsi mai. Dopo una mezz’ora di chiacchierìo, Beatrice si alzava per andare a vestirsi; il marito si levava, le apriva la porta, la salutava e ritornava lentamente al suo posto, fissando la sedia vuota dove ella era stata seduta, non parlando più, come stanco, come inebetito. Qualche volta diceva a suo zio:

— Accompagnatela voi al teatro, zio; io ho un convegno altrove. Forse verrò a prendervi.

Perchè, sul principio, Marcello aveva spesso accompagnato la moglie. Avevano fatte insieme le visite di obbligo, di un quarto d’ora, dovendo ascoltare i complimenti ritardari, dovendo rispondere a tante insulse domande sul viaggio di Parigi; erano andati insieme, in carrozza, alla cosidetta trottata; erano andati insieme al teatro San Carlo, di cui la stagione era sul finire. Si mostravano volentieri al pubblico, questi sposi che non avevano vita privata. Si trattavano, davanti alle persone, con la medesima disinvoltura di quando erano soli. Il pubblico discorreva di essi, naturalmente. Non male però; anzi molti ripetevano l’eterna frase: una bella coppia, in mancanza di più acuto giudizio. Qualcuno osservava che Beatrice aveva influito molto sul carattere di suo marito, dandogli per modello il suo; ma, in fondo, questo qui era una prova di affetto. Come fu stabilita